Patologie della separazione: La negazione

Nel momento in cui due persone che stavano insieme e che insieme hanno fatto dei figli si lasciano, la coppia deve riformularsi, approdando a una condizione del tutto nuova. Tuttavia, viviamo il tempo in cui la separatezza è una condizione resa obsoleta dai moderni strumenti di comunicazione e, pertanto, spesso temuta. Nell'ambito delle separazioni giudiziali, i meccanismi che i genitori possono mettere in atto per difendere i figli dall'evento separativo sono molti e non sempre funzionali...

di Mauro Grimoldi e Silvia Marchi

La famiglia, priva di supporti e paletti ideologici e religiosi, è un’istituzione in crisi. Da certezza, realtà fissa si fa sempre più cangiante, multiforme, le relazioni “liquide” si rivelano in costante transizione indipendentemente dalla natura dei legami, dalla sussistenza di un matrimonio, dalla presenza di figli.

In Italia, nel 2019 avviene per la prima volta l’intersezione tra due importanti linee tracciate dalla statistica demografica. La prima, pressoché orizzontale, è quella che indica il numero di matrimoni contratti ogni anno, la seconda, decisamente inclinata in un vivace e costante aumento, indica la somma di divorzi e separazioni. Nel 2019, in particolare 148mila coppie italiane hanno contratto matrimonio e, tuttavia, nel corso dello stesso anno, 146 mila coppie hanno messo formalmente fine alla loro unione[1]. Per ogni matrimonio, vi è, in Italia, una separazione. Il 22% delle coppie genitoriali che si separano, inoltre, ovvero circa 30.000 coppie all’anno, richiede un rito giudiziale a causa dell’elevata conflittualità, ovvero delega a un Tribunale ciò che concerne le decisioni riguardo i propri figli. Figli che sono presenti nel 76% dei casi e che molto spesso sono davvero giovanissimi: in più della metà delle separazioni dei genitori, i bambini hanno meno di dieci anni. Il fatto che, di frequente, i bambini coinvolti nelle separazioni siano così piccoli, è indicativo di quanto l’avere dei figli ingeneri tipicamente, nella vita di qualsiasi coppia, una sorta di onda anomala, un moto destabilizzante che scuote e a cui non sempre la coppia è in grado di fare fronte. Emblematico come, non di rado, proprio dai colloqui fatti con i genitori che arrivano in CTU, emerga, nelle narrazioni di entrambi, il ricordo di un’aspettativa, in termini di investimento emotivo, legata all’eventuale nascita di un figlio, di segno del tutto opposto; il più delle volte infatti questi genitori sembrano essersi affidati al desiderio condiviso di concepire proprio perché convinti che il lieto evento avrebbe poi contribuito a sistemare le cose, a livellare le difficoltà. La nascita si sarebbe insomma tradotta sul piano immaginario in una dimensione rinnovata e potenzialmente terapeutica per il rapporto. Così tuttavia non è.

Affrontare il tema delle separazioni oggi significa entrare nello specifico di un evento decisamente comune. Le c.d. nuove famiglie comprendono infatti sempre più spesso famiglie separate, nei termini di nuclei monogenitoriali o di famiglie che si sono ricostituite. Tuttavia, il fatto che la pratica sia divenuta consueta non è tuttavia sufficiente a fare della separazione un’operazione facile; al contrario, appare sempre più evidente come l’atto stesso del separarsi costituisca a tutte le età e in tutti i contesti della nostra società, una messa alla prova tutt’altro che agile da superare, quando non addirittura dolorosa e, addirittura, non di rado, impossibile.

Etimologicamente, la parola separare viene dal latino ed è composta da se e parare. Quella particella -se (da sēd, sine) significa letteralmente senza, da parte, ma è anche il pronome riflessivo di terza persona; pertanto la sua funzione è duplice e consiste da un alto nel dettagliare, nello specificare il significato del verbo, dall’altro nel prendere il senso dell’azione e rivolgerlo, proprio come farebbe uno specchio (in funzione riflessiva, appunto), verso colui che la compie. Il verbo parare, poi, che nella forma passiva paror significa essere preparato, fa preciso riferimento al concetto di allestire, di preparare, dunque il senso di separare addiviene al significato più profondo di prepararsi, di approntarsi a stare senza, ma anche a quello di disporre se stessi a mettersi da parte.

La radice del significato di questo termine non fa dunque riferimento ad un’azione rapida che si è compiuta, bensì sottintende una sorta di moto a luogo dell’anima, abbraccia l’idea di una disposizione interiore, quasi un allenamento, una propedeutica all’atto. Il fatto stesso di separarsi coinvolge l’individuo in un’acquisizione lenta di competenza, che ha a che fare con il preparare se stesso e che presuppone il riconoscere se stesso, l’individuare se stesso.

Separarsi significa, pertanto, prima di tutto individuarsi e individuarsi ha sempre a che fare con due distinti orizzonti concettuali: da un lato quello di riconoscere se stessi, dall’altro quello di farsi riconoscere; da una parte il sé, dunque, dall’altra l’altro.

Nell’ambito delle consulenze tecniche questo tema etimologico si rivela centrale ed è alla base di molte patologie delle separazioni.

Quando si comincia a valutare una coppia che si è separata, una delle primissime cose che un buon clinico deve fare è verificare quanto sia ancora presente, nei due “ex”, la dimensione del noi, ovverosia l’inerzia di una bolla di narrativa duale che fatica a fessurarsi.

Quando due persone vivono una relazione stabile, a qualunque domanda che venga posta a uno dei componenti la coppia, facilmente si otterrà come risposta una sorta di lapsus, poiché l’interlocutore utilizzerà la prima persona plurale. “Dove vai in vacanza quest’estate?” “Andiamo in Sardegna”. In questo tipo di risposta si rivela la presenza della dimensione del noi.

Nel momento in cui due persone che stavano insieme e che insieme hanno fatto dei figli si lasciano, questa dimensione subisce (e deve subire) inevitabilmente una profonda trasmutazione, in quanto il noi siamo una coppia non esiste più e il noi siamo genitori si trova, il più delle volte, a vacillare, deve ristrutturarsi, riformularsi, approdando a una misura e a un carattere del tutto nuovi. Tuttavia, i percorsi che questo rinnovamento può apprestarsi ad intraprendere sono molteplici e non sempre funzionali, rivelandosi non di rado nel segno di una negazione basata su qualcosa che si rivela impossibile da sostenere.

Negazione: separarsi ma non troppo

Luana e Pietro sono due giovani genitori, che si separano, dopo 7 anni di relazione e di convivenza, quando il piccolo Diego ha poco meno di 4 anni. Hanno una discreta disponibilità economica e sono proprietari di due case. Tuttavia, decidono di gestire la separazione alternandosi nella casa coniugale e, incredibilmente, anche nella seconda casa. In quanto individui di per sé questa scelta esclude una dimensione di effettiva se-parazione, espone entrambi a un costante e reciproco controllo, oltre al perdurare di una conflittualità che troverà nella nuova forma di convivenza ottime occasioni di riproduzione continua: è un modo per continuare a stare insieme, odiandosi sempre più.
Come genitori, tuttavia, si ottiene un risultato ancora più disfunzionale. Uno arriva la mattina e lascia la casa alle 16; l’altro arriva alle 16 e lascia la casa la mattina dopo. Al bambino questa situazione dà stabilità, dicono, abbiamo preferito evitargli una sofferenza. Questa pratica per cui i genitori si danno alternativamente il cambio dentro casa e nella gestione del figlio, avviene con una cadenza quotidiana e dura da circa un anno, quando la coppia arriva di fronte a un CTU.
Il giorno dell’osservazione domiciliare incontriamo Diego, un bimbetto vispo e sorridente. Si presenta fin da subito come particolarmente disponibile alla conversazione, racconta episodi legati alla scuola, agli amici e alle sue preferenze in fatto di colori, di animali e di mezzi di trasporto. Prende confidenza in fretta, si fida e si affida. Alle 16.15 si sente suonare il campanello. Il signor Pietro, che in quel momento sta giocando con Diego ai piedi del divano, seduto per terra, si alza e si dirige verso la camera da letto. Lì sparisce. Diego è felicissimo, saltella, esulta, corre verso la porta e dice: è arrivata la mia mamma! Risponde lui al citofono e apre la porta per far entrare la mamma. Quando il papà torna in salotto, la signora Luana è già in casa. I due genitori non si salutano e non si guardano, camminano muti fino al centro della stanza e si fermano l’uno di fronte all’altra. Il silenzio inquieta. Diego si ritrova tra i due, in mezzo. Quando il papà inizia a prepararsi per lo “scambio”, sempre senza dire nulla, è il bambino che dopo avere spostato la testa dal padre alla madre come in una muta partita di tennis, rompe il silenzio e gli chiede: perché vai via? Il padre continua a tacere, è fermo, in una posizione che, più che statica, sembra imbrigliata, quasi fosse legato ad un albero, è visibilmente confuso, si percepisce chiaramente come non abbia la minima idea di cosa rispondere. Trascorrono nuovamente lunghi attimi di silenzio denso, scomodo, in cui nessuno, nemmeno noi tecnici, siamo a nostro agio. Finalmente il signor Pietro appoggia sull’aria una spiegazione poco convinta, quasi sussurrata, un palliativo che non risponde alla domanda profonda del bambino, che era centrata sul perché l’allontanamento improvviso del padre da lui: vado dalla nonna, dice. Diego, ritrovatosi con un pungo di mosche in mano, si arma per cercare di dare autonomamente alla sua domanda una risposta logica, che suoni come più plausibile. Ne trova una che sembra convincerlo, si tranquillizza da solo e, a questo punto, chiede al papà solo una conferma, giusto per essere sicuro che un motivo valido per questa fuga esista: vai a lavorare? Il signor Pietro, che non intuisce affatto lo smarrimento del figlio, rimane ancorato alla sua precedente dichiarazione, anzi precisa e ribadisce: no, adesso vado dalla nonna, poi domani vado a lavorare. Questo getta definitivamente il bambino in uno stato di profonda confusione, tanto che cambia espressione, diventa visibilmente triste, è spaesato, tenta un’altra domanda un po’ più sottovoce, ma il signor Pietro saluta e si affretta ad uscire. La mamma, che per tutto il tempo dello scambio è rimasta immobile, impassibile, inespressiva e in totale silenzio, una volta uscito di casa il papà, si ridesta, comincia a parlare e a sorridere.
Risulta davvero difficile credere che questo tipo di scambio avvenga ogni giorno, due volte al giorno, da circa un anno. Entrambi i genitori, reciprocamente concentrati su se stessi, rinchiusi nelle rispettive e impermeabili bolle di disagio, finiscono con il dimenticarsi completamente di significare agli occhi del figlio la realtà, di dare senso a ciò che lui sta vivendo. Manca del tutto una messa in parola di ciò che accade, una traduzione della scena, un’attribuzione di senso rispetto al fatto che ciò si vede cela e sottende ciò che non si vede.
La conseguenza inevitabile di questa situazione altamente disfunzionale è che Diego si ritrova completamente solo in balìa di una tristezza profonda che sale lentamente e che lentamente lo oscura. Non sa spiegarsi quel repentino abbandono da parte del papà che un momento prima giocava divertito con lui seduto sul pavimento e che, un momento dopo, scuro in volto, si è alzato e se ne è andato. L’episodio separativo rimane come congelato, inscatolato, una sorta di fermo immagine ricolmo di tristezza che termina con l’uscita di scena del papà. Quando la porta si chiude, infatti, la pellicola torna a scorrere, il film riparte, la mamma si muove, Diego che è un bimbetto buffo e simpaticissimo ritorna a chiacchierare e il gioco ricomincia.

Questo caso propone un magistrale esempio di come il terrore connesso all’idea della separazione finisca per esplicarsi nel tentativo continuo, reiterato pervicacemente, di evitare la perdita dell’oggetto. Conservare strenuamente la propria rispettiva presenza all’interno della casa è, per questi due genitori, un modo maldestro di evitare a tutto il nucleo familiare un lutto, che tuttavia evitabile non è. Il desiderio disperato di preservare il figlio da questa delusione produce, in questo caso, una sorta di sistematico lutto quotidiano che rimane sempre inelaborabile, mette in scena giorno dopo giorno una tragedia multipla che il bambino è costretto a vivere ripetutamente senza tuttavia ottenere mai una spiegazione di ciò che accade, una spiegazione che, peraltro, sia sufficientemente valida da consentirgli di escludere quell’inevitabile connessione logica secondo cui la colpa di questi improvvisi addii potrebbe facilmente essere la sua. Se il papà, che sta giocando con me, a un certo punto se ne va, probabilmente lo fa perché il gioco non gli piace più, perché io ho fatto qualcosa che lo ha fatto arrabbiare o perché qualcosa che io ho fatto gli ha fatto cambiare idea sul gioco e sullo stare insieme con me.
Il fatto che, a un anno dalla separazione, il bambino chieda ancora al genitore che se va perché vai via? evidenzia come egli non abbia minimamente interiorizzato l’ordinarietà di questo cambio e il fatto che questo tipo di organizzazione sia una pratica consueta e abituale. Per il bambino, quella dipartita quotidiana è una novità ogni volta, peraltro, una novità spiacevole, dal gusto amaro.
Recalcati identifica questa incapacità di separarsi come un tratto davvero contemporaneo, in quanto, la nuova melanconia scaturisce non dalla assenza, dalla perdita dell’oggetto, ma dalla presenza iper-presente dell’oggetto (1). Questi due genitori da tempo separati continuano, sostanzialmente, a non separarsi, rimangono immobili, aggrappati a ciò che non esiste più, presenti anche quando non ci sono, nella speranza di non dare mai al proprio figlio l’impressione di essersene andati. Se ne vanno nell’atto, escono materialmente dalla scena, eppure rimangono nell’aria, permeano il pensiero del bambino sotto forma di domande che non trovano risposta, di confusione, di dubbi, di paure. L’assenza dell’oggetto che non è sopportabile, che è impossibile da elaborare, si declina, qui, in una predisposizione dell’esistenza finalizzata a non fare mai provare al soggetto l’esperienza della perdita (2).
Tra questi due genitori separati non c’è separazione e non c’è individuazione e questa commistione confusa di paure e di evitamenti non può che riflettersi sul bambino, il quale alterna stati di serena spensieratezza a momenti di pensiero triste e ingombrante, quasi alzando e abbassando un interruttore, quasi compartimentando senza soluzione di continuità due esistenze frammentate e difficilmente conciliabili, l’una fin troppo edulcorata, l’altra dolorosamente desolata.

1. M. Recalcati, Le nuove melanconie, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 2

2. «… vivono l’assenza dell’oggetto come insopportabile, impossibile da elaborare, incollandosi alla presenza di un oggetto che ripara il soggetto dal rischio della perdita sottraendolo all’esperienza dell’assenza», ibid.

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