Patologie della separazione II: la trasformazione nell’opposto.

Mamma, ma tu mi credi o mi ami? Questa incredibile frase di un bambino di cinque anni dimostra la contrapposizione tra ciò che il bambino dice e l'amore  della madre. La parola di Marco è divenuta la recitazione di una verità pret-a-porter in cui il padre è ricettacolo di ogni malignità possibile. Nella seconda puntata delle patologie della separazione vediamo una delle strategie più comuni per affrontare una separazione impossibile, la trasformazione dell'amore in una relazione senza limiti: la relazione d'odio.

di Mauro Grimoldi e Silvia Marchi

Si potrebbe contrapporre al concetto di separare, quasi nei termini di una nemesi, quello di dipendere. De-pendere, letteralmente pendere da delinea, infatti, callidamente i tratti e le sembianze di un soggetto non separato, non individuato, strutturalmente appeso all’altro. Semplificando: in un rapporto che si innesta su una relazione di tipo dipendente, non c’è separazione e non c’è individuazione, ma un indistinto inglobamento.

Come ha ben spiegato Zucca Alessandrelli[1], nel diritto romano, il termine addictio, che ricorda la clinica dell’addiction, delle dipendenze, corrispondeva a un particolare istituto giuridico e si utilizzava per nominare quella consuetudine secondo cui un creditore aveva la possibilità di acquisire come schiavo il proprio debitore. Il principio dell’addictio legittimava, dunque, l’asservimento di un essere umano ad un altro, costituiva un assoggettamento senza scampo dell’individuo, totale e totalizzante: il creditore aveva infatti facoltà di disporre del proprio schiavo come meglio credeva, poteva quindi tenerlo per sé, rivenderlo o addirittura ucciderlo.

La relazione dipendente è una relazione di stampo narcisistico, fondata sul desiderio del non desiderio[2], ovvero su un rifiuto sostanziale dell’altro. A causa di un fragile assetto narcisistico di base, infatti, il desiderio è percepito dal soggetto come minaccioso, in quanto pericolosamente rivolto verso l’esterno, dunque verso quell’oggetto in-dipendente o non-più-dipendente, che, con il suo atteggiamento non adesivo ai bisogni, è in grado di ferire e di distruggere.

Questa difficoltà di separarsi, che oggi si riscontra nei termini di un’evidenza, è dovuta certamente, da un lato, ad un profondo cambiamento culturale, che ha a che fare con il passaggio dalla famiglia normativa a quella affettiva[3] o ipermoderna[4], in cui l’oggetto è sempre presente.

La relazione con un oggetto, rispetto a quella con un soggetto, è infatti evidentemente una relazione assai più facile, meno coinvolgente, dunque meno rischiosa. Soprattutto dopo l’epidemia da Covid-19, si è visto come gli adolescenti tendano in modo sempre più pervasivo e sistematico ad instaurare relazioni attraverso ma forse proprio con degli oggetti (lo smartphone, il computer, i videogiochi online), relazioni che mediano il rapporto con l’altro, fino a escluderlo. Il rapporto vincolante, costante, a volte non staccabile, è con l’oggetto e finisce per illudere il soggetto di essere in relazione con l’altro, quando invece il rapporto è tutto centrato solo sull’oggetto, in un’esperienza che Miller definirebbe di anti-amore[5].

Per colui che si deve separare, accade qualcosa di simile a ciò che accade a tutti gli adolescenti. Uscendo dal nucleo familiare, il rapporto con il fuori, con l’altro presenta una specifica complessità: è molto difficile essere visti dall’altro. Essere guardati implica un inevitabile dover fare i conti con la propria eventuale insufficienza. La paura di essere individuati consiste, dunque, specularmente nella paura di individuarsi, le due esperienze si sovrappongono, in quanto lo sguardo dell’altro è sempre anche un po’ il proprio e si muove in un universo incerto che ancora oscilla tra il sé e l’altro, tra l’individuale e il gruppale, tra la separazione e l’individuazione, appunto.

Ecco quindi che la separazione, il presentarsi come individui singoli quando fino a ieri si era un noi (familiare, di coppia, di gruppo), può diventare un’operazione ardua, difficile, in quanto inevitabilmente evocativa di immagini di insufficienza, di timori prestazionali, di paure connesse all’adeguatezza; essa ha a che fare con il proprio sentirsi in grado di stare senza l’altro, con la capacità di elaborare il lutto del noi.

Oggi con il lutto non siamo più abituati a misurarci, non lo celebriamo, fatichiamo a farvi fronte. I film di una volta traboccano di addii struggenti in cui gli amanti, piangendo fiumi di lacrime, si salutano sporgendosi dal finestrino di un treno in partenza non sapendo né se né quando si rivedranno. Questa scena oggi non è più attuale, la separatezza non esiste più dal momento che dall’istante successivo alla partenza è possibile parlarsi, vedersi, chattare, ovvero scriversi in continuazione, attraverso un comune smartphone. Le separazioni si moltiplicano nell’epoca in cui la separazione è divenuta una faccenda inedita. Questo comporta, in alcuni casi, la messa in atto di comportamenti del tutto inadeguati.

Uno dei viraggi più consueti della negazione della separazione è la trasformazione della relazione d’amore nel suo opposto, in una relazione di odio, in cui la dimensione del noi non solo non cessa e non si ristruttura, bensì perdura a tempo indeterminato cambiando risolutamente di segno. L’altra metà della coppia subisce di colpo una de-idealizzazione, un crollo, non è più riconoscibile, non è più lui/lei e questo tracollo, questa caduta in picchiata, alle volte, viene declinata, messa in parole: è diventato/a un’altra persona, non lo/la riconosco più, non è più lui/lei.

Di segno contrario rispetto all’idealizzazione, funziona però nello stesso modo, in quanto costruisce mentalmente una versione prototipica dell’altro e utilizza questa sorta di fotografia paradigmatica e immutabile come fosse un contenitore di senso entro cui affastellare i prodotti di una lunga serie di difese arcaiche di tipo proiettivo, tutte di carattere perentoriamente negativo.

L’altro, l’amato che un tempo incarnava il bello del mondo, si fa d’un tratto portatore insano di tutto il male, di tutto il brutto, di tutto l’inaccettabile presenti nell’ambiente. Dell’altro non si salva nulla, è integralmente inadeguato in ogni suo aspetto, deludente in ogni situazione, non all’altezza. E questo finisce, alle volte, per tradursi in un’ingombrante e pericolosissima eredità che viene appoggiata, più o meno consapevolmente, nelle mani di un bimbo. A volte questa improvvisa trasformazione si fa quasi fisica, si correla a un cambiamento di connotati, a una incapacità di riconoscere nel soggetto oggi odiato chi fino a ieri si amava.

Marco, nome di fantasia, è un bambino di cinque anni che svolge un particolare racconto alla madre. La conversazione comincia così: mamma, registrami. Il bambino racconta alla mamma di una gita con il padre da Roma a Ostia, in un giorno di ponte. Il viaggio si svolge in autobus in compagnia del padre, che Marco definisce quasi subito “un nevrotico”, con la nuova compagna del papà (“la sciocca”) e il figlio di quest’ultima, un bambino dell’età di Marco. Quasi subito il racconto si impernia su una “cosa bruttissima” che sarebbe successa: il bambino, così racconta, si sarebbe addormentato e sarebbe caduto sul pavimento del bus durante una curva, facendosi male a un braccio. Nessuno si sarebbe accorto di nulla. Marco sarebbe rimasto a giacere sul pavimento del bus per un tempo imprecisato, piangendo. Il racconto prenderà forme diverse, l’altezza del sedile da cui cade diventa pari a quella di un tavolo, e anche il pianto del bambino diviene silenzioso perché il padre gli avrebbe intimato di non piangere. Questo, prima di addormentarsi, come se avesse presagito l’imminente disastro. Così Marco spiega il mancato intervento non solo del padre o degli amici presenti, ma di chiunque altro, in un autobus stipato di persone. Rispetto alla gita al mare Marco specificherà che perfino l’acqua non era blu ma sporca di alghe e di escrementi.

Infine emerge, da parte della madre, una constatazione che suona come un’accusa: “quando ti ho chiamato ho sentito che stavi bene…” E’ un punto che merita di essere riportato fedelmente.

Mamma: eri felice, quindi, il giorno prima di andare al mare, di stare con tuo padre?

Marco: non tanto felice, però… diciamo che un po’ di felicità ce l’avevo… ma solo di andare al mare con quel bambino.

Mamma: vabbè, comunque, io ieri sera quando ti ho chiamato ti ho sentito che stavi bene, mi sei sembrato felice, quindi io ho deciso che adesso quando tu sarai da lui, quando dormirai da lui, io non ti chiamo più. (La mamma cambia tono). Perché a me ieri mi è sembrato di disturbarti e mi è sembrato che tu non avessi voglia di stare con me al telefono.

(Marco urla e si mette a piangere): ok, se dici che io non volevo stare con te al telefono, io (singhiozza) piango.

Mamma: Marco, tu non mi hai parlato e tu non mi hai neanche salutato bene. Mi hai detto “ciao” ed è finita lì. Allora, io non ho intenzione di obbligarti, io non sono una persona che obbliga, io ti chiamo se tu hai voglia…

Marco piange e urla: ti posso dire una cosa?

Mamma: certo. Certo, mi puoi dire quello che vuoi.

Marco: ok. (piangendo e singhiozzando): però, mamma, mi rispondi, puoi dire di sì o di no su questa cosa che ti dico: tu mi credi oppure tu mi ami?

Mamma: io ti amo. Poi sospira: ti credo, anche, abbastanza, sì.

In questo dialogo si conclama, con drammatica nitidezza, la profonda difficoltà di affrontare l’evento separativo. L’altro, da cui ci si è separati, l’altro che è uscito di casa, che se ne è definitivamente andato, non c’è, eppure c’è[6]. È presente a tal punto da ingombrare, da non lasciare posto a nient’altro che non sia ad esso riconducibile. La narrazione del piccolo Marco, il racconto di quella che dovrebbe essere una sua esperienza, è in realtà un racconto sul padre, ha come protagonista il padre, poiché al padre lo sguardo della madre è rivolto[7]. Questo il motivo per cui Marco, per essere visto, utilizza la sagoma del padre come un’esca, se la posiziona davanti, la agita, ne fa mostra, per attirare su di essa, e conseguentemente su di sé, lo sguardo della mamma.

Nel dialogo tra Marco e la mamma, il tema centrale della narrazione, ma anche il tema che Marco sa bene essere di primario interesse per il suo interlocutore, inerisce una dimensione compartecipata e condivisa che si struttura sulla maleficazione della figura paterna. Quando Marco dice: mamma, registrami, vuole far sapere all’adulto di riferimento del momento (con il padre, infatti, si comporta in un modo molto simile) che lui è pronto, che può cominciare a performare, a improvvisare un atto di una personalissima tragedia da scrivere al momento, che può iniziare a costruire mano a mano per fare contenta la sua mamma, manipolandone l’intreccio come fosse un impasto, riproponendo e riadattando gli eventi, andando alla ricerca della versione che le espressioni della mamma confermeranno essere quella che più si attaglia al desiderio di quest’ultima.

La mamma, dal canto suo, è lì proprio per sentire questa storia, questa e non un’altra, tanto che quando il bambino conclude il racconto sulla caduta dal sedile del bus e rimane in silenzio, è proprio la mamma a incalzare perché ne parli ancora (…ma com’è che sei caduto? Ti sei fatto male?). Alla sequenza mirabile di racconti tutti egualmente inverosimili centrati sul mondo paterno la madre sceglie di credere incondizionatamente, al punto che porterà il bambino al pronto soccorso per verificare eventuali lesioni al braccio, convinta della colpa paterna.

Il cuore di questa mamma è pieno fino all’orlo di disapprovazione e di odio, è ricolmo di rabbia e di disgusto, la dimensione del noi in cui questa donna è ancora completamente invischiata e granitica, impermeabile, tanto che il bambino, in cerca di amore, percepisce chiaramente di doversi intrufolare come può nello spazio che c’è, sente di doversi fare faticosamente largo in un mondo interno in cui l’unico modo per avere delle conferme affettive è quello di chiederle ripetutamente e disperatamente (Tu mi vuoi bene? Per sempre? Davvero?). L’amore della mamma sembra essere percepito da Marco come incerto, sembra essere, visto da lui, un amore claudicante, zoppo, malaticcio, bisognoso di conferme continue. L’amore della mamma è condizionato dalla capacità dei bambino di mantenere un’immagine deteriorata del padre e del tempo passato con lui; e dunque, forse, dal suo punto di vista, potrebbe anche esaurirsi, spegnersi, e che, per questo, genera un tormentato bisogno di essere ripetutamente sottoposto a conferma.

Emblematico è il momento in cui Marco, che comprensibilmente non ha chiaro cosa vi sia di poi così tanto sbagliato nell’essersi sentito per un momento felice anche se si trovava con il papà, tenta di proporre una piccola dose omeopatica di verità: diciamo che un po’ di felicità ce l’avevo… e subito la declina in una forma che per la madre possa essere accettabile: …ma solo di andare al mare con quel bambino. Tuttavia, è proprio nel momento in cui, del tutto involontariamente, a Marco scappa un pò di felicità, e forse, insieme a questa, uno scampolo di verità, la madre lo sanziona gravemente: io allora non ti chiamo più. La sanzione arriva inappellabile, dritta e dolorosa sul piano che fa più male, quello affettivo, infatti Marco, ritrovatosi senza alcuna difesa, si mette a piangere. Emotivamente, ora il bambino è annientato, colpito nel profondo, tanto che l’ultima speranza a cui si aggrappa risiede nello struggente interrogativo che rivolge alla mamma, quasi come una preghiera: tu mi credi o tu mi ami? Marco vuole sapere dalla mamma cosa intende fare, la implora implicitamente di prendere una posizione, di decidere se continuare a pesare ogni sua parola sulla bilancia al fine di verificare se sia coerente con il suo desiderio, per poi negare a Marco l’amore, qualora si accorga che questa coerenza sfumi; oppure se cominciare finalmente ad amarlo e basta, indipendentemente dalla versione che racconta, senza patti, senza compromessi, senza condizioni. Marco pone così alla mamma un’alternativa, la mette davanti a un bivio in cui da un lato sta il piano simbolico del pensiero, della verità delle parole e dall’altro quello insondabile dell’affetto spontaneo, dell’amore per il nome proprio del bambino, per la sua irripetibile unicità[8]. Agli occhi di questa mamma, Marco è un bambino che ha la funzione precisa di farsi testimone oculare dell’inadeguatezza paterna[9].

In questa contrapposizione inconciliabile tra verità e affetti alberga un uso strumentale della parola che rende il piccolo Marco un bambino clinicamente non credibile, poiché è chiuso a doppia mandata, imprigionato ermeticamente dentro un conflitto di lealtà che lo invade e lo pervade. Nulla possiamo sapere, in questa dinamica, di ciò che realmente accade a Marco, dalle sue parole, strutturalmente vincolate a un patto di ferro.

Evolutivamente, esistono rischi enormi rispetto allo psichismo di Marco, costretto a tenere in piedi, giorno dopo giorno, un’articolazione esistenziale in cui gli affetti e la parola, l’immaginario e il simbolico si situano su due piani che non possono mai, in alcun modo sovrapporsi, che devono essere tenuti disgiunti a qualunque costo, pena una condanna mortifera: la plausibile, realistica perdita dell’amore della madre. Questa prostituzione della verità, questo degradante declassamento della parola sono certamente aspetti connessi a una sostanziale incapacità di entrambi i genitori di gestire la dimensione del lutto e della perdita, incapacità che passa attraverso la costruzione di una carriera fondata sull’odio; ma, per il piccolo Marco, arrivano a comportare l’esistenza di un universo pervasivo drammaticamente finto, costruito come un vestito a misura dell’interlocutore, di quello che gli autori chiamano un falso-sé[10] e che si configura come il preludio allo sviluppo di una condizione francamente psicopatologica.

Siamo di fronte ad una difficoltà strutturale e sociale a sopportare l’esperienza del lutto come parte integrante del processo realmente separativo, che non è solo sparizione, non è solo dirsi me ne vado, esco di casa. In alcune delle coppie che si separano, si struttura repentinamente e cresce giorno dopo giorno un sentimento opposto all’amore, che lava dalla memoria ogni traccia del tempo che fu. Ritorna sempre, solo la stanca de-idealizzazione dell’oggetto, prima amato senza condizioni e ora, nello stesso modo, integralmente odiato. L’uomo che si amava non esiste più, la donna con cui certamente desiderava trascorrere tutta la vita non è più lei; al loro posto sono comparsi soggetti nuovi, sentiti come gravemente persecutori, bersagli di una dimensione proiettiva di segno drasticamente negativo. E’ il meccanismo alla base della paranoia, e si confonde con esso, pur non essendolo.

Come Recalcati ci insegna, la carriera relazionale fondata sull’odio è molto più duratura della carriera fondata sull’amore e questo perché nell’odio non c’è possibilità del patto, non c’è fondazione della soggettività attraverso la mediazione dell’Altro[11]. La clinica delle separazioni lo conferma: la relazione di odio sa essere drammaticamente stabile, poiché tra l’altro sono davvero rari gli elementi che possono intervenire a modificarla e a disturbarne l’assetto. Non c’è tempo passato insieme, c’è una relazione ridotta all’osso, non ci sono tradimenti o assenze che possano turbarne la serena prosecuzione. Per questo quando due soggetti rimangono saldamente ancorati a una dimensione del noi in cui prevale la de-idealizzazione[12] dell’altro, la proiezione come meccanismo di difesa e l’odio come sentimento consapevole, quel legame rischia di non sciogliersi mai, quella separazione rischia di non avvenire affatto. Per questo non di rado una nuova relazione fatica a farsi strada, perché un nuovo oggetto d’amore percepisce immediatamente che il campo affettivo dell’altro è dominato dall’odio di qualcuno che è di fatto ancora presente, e fugge, giustamente, a gambe levate. Anche agire nell’interesse dei bambini che in queste situazioni sono coinvolti diventa un’impresa estremamente difficoltosa.

[1] M. Catella e C. Zucca Alessandrelli, La personalità dipendente. Percorsi di interpretazione e di cura dei fenomeni di dipendenza alla luce della tradizione psicoanalitica, Centro Ambrosiano, Milano, 1999.

[2] Ibid.

[3] G. Pietropolli Charmet, I nuovi adolescenti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.

[4] M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

[5] «Amare è riconoscere la propria mancanza e offrirla all’altro, porla nell’altro. Non è dare quello che si possiede, dei beni, dei regali, è dare qualcosa che non si possiede, che va al di là di se stessi», J.A.Miller, L’autre qui n’existe pas et le comitée d’ethique, corso tenuto presso il Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi, inedito, 1996/97.

[6] «La sparizione dell’altro, che determina l’esperienza luttuosa, non coincide affatto con la separazione, anzi i tempi della sparizione e della separazione sono necessariamente disgiunti. La perdita dell’oggetto introduce una separazione di fatto, ma perché questa separazione debba essere simbolizzata dal soggetto affinché possa essere psichicamente digerita e la vita possa tornare a vivere. La difficoltà che spesso incontriamo ad accettare la perdita dipende proprio dal fatto che la separazione dall’oggetto, anziché venire simbolizzata e introiettata, viene inconsciamente rifiutata. Per questa ragione, la reazione emotiva del lutto, non significa di per sé l’introiezione effettiva della separazione, piuttosto il contrario. Il dolore del lutto mostra che l’oggetto perduto è ancora presente, che un’ombra aderisce alla nostra vita. È come il nome della donna amata che appare compulsivamente sulla bocca dell’uomo» M. Recalcati, La luce delle stelle morte, Feltrinelli, Milano, 2022.

[7] «L’oggetto amato non c’è più, è morto, sparito, scomparso, ma la sua assenza è la forma più inquietante della sua presenza», ivi;  «Appoggiare gli occhi sul volto dell’altro equivale, per il bambino, ad osservare il proprio volto riflesso in uno specchio; il processo stesso di costruzione dell’Io consisterebbe, secondo Lacan, proprio nel riconoscere l’immagine di sé in quella figura, dapprima estranea, poi sempre più familiare, che lo specchio rimanda sotto forma di Altro», J. Lacan, Lo stadio dello specchio come fondatore della funzione dell’io, in Scritti, a cura di G. B. Contri, Einaudi Editore, Torino, 1976, vol.I.

[8] J. Lacan, Il seminario, Libro X, L’angoscia (1962/63), Einaudi, Torino, 2007, p. 369.

[9] «In alcune famiglie crescono bambini “invisibili”, il che significa che non vengono mai visti per quello che sono e che sentono», J. Juul, Il bambino è competente, Feltrinelli, Milano, 1995, p.79.

[10] Cfr. D. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando Editore, Roma, 1965.

[11] Cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, vol.1, p. 58.

[12] «Anche la de-idealizzazione è un modo per rigettare il dolore necessario al lutto. In generale i rapporti di filiazione, ad esempio quelli tra figlio e genitore o tra maestro e allievo tendono ad impantanarsi nello stagno di una relazione di venerazione idealizzante o di aggressività rivaleggiante», M. Recalcati, La luce delle stelle morte, Feltrinelli, Milano, 2022, p.57

1. M. Recalcati, Le nuove melanconie, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 2

2. «… vivono l’assenza dell’oggetto come insopportabile, impossibile da elaborare, incollandosi alla presenza di un oggetto che ripara il soggetto dal rischio della perdita sottraendolo all’esperienza dell’assenza», ibid.

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