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Decreto Caivano, un’opportuntà perduta

Già il nome denuncia la natura contingente di un’iniziativa destinata a tamponare il turbamento collettivo. Il “decreto Caivano”, se fosse un libro, sarebbe un “instant book”, uno di quei libri occasionali, che hanno senso in quel momento e poi forse mai più. Prende il nome da un luogo divenuto simbolo di un evento, di una violenza sessuale dai tratti perversi, che inquieta e suscita desideri di cancellazione, vendetta sociale e resipiscenze collettive. Con un merito che rimane sotto traccia, e che non si può tuttavia sottacere: l’aver portato l’attenzione su un problema annoso e dimenticato.

di Mauro Grimoldi

I minori che già dai 14 anni, età in cui è prevista per convenzione l’imputabilità, commettono reati in grado di danneggiare gravemente il corpo e la psiche delle vittime, come accaduto senza ombra di dubbio a Caivano, sono anche di scandalizzare e sconvolgere l’opinione pubblica di una nazione. A 14 anni è troppo tardi per parlare di infanzia, di mancanza di consapevolezza, di ingenuità strutturale. Ma è anche troppo presto per limitarsi a punire, per applicare il più semplice principio retributivo, di cui la limitazione della libertà soggettiva può essere un ottimo esempio. Il costo sociale di una vita da adolescente prima e da adulto poi, dedita alla commissione di azioni criminose, è insostenibile. Per questo i principi cardine della legge speciale che governa il sistema penale minorile sono la residualità della detenzione e la minima offensività: perché il minore autore di reati deve anzitutto essere recuperato. Questa esigenza supera la funzione retributiva della pena, ovvero l’esigenza di una punizione proporzionata al danno arrecato. Per questo molto meno un minore su 100 tra quelli che commettono reati finisce in carcere e il sistema ha l’obbligo di stare attento a non ostacolare quei processi di sviluppo che consentono la risoluzione dello scacco evolutivo che mette l’adolescente in contrapposizione all’altro sociale, che lo priva di quell’umanità che dovrebbe arginare, naturalmente, l’intenzione antisociale.

Il decreto Caivano è stata una grande opportunità perduta. Non si tratta però di essere buonisti o di stare dalla parte delle vittime o degli aggressori. Si tratta semplicemente di essere realisti, e prendere atto. Il Decreto Caivano strizza l’occhio al carcere aumentando di un po’ il suo utilizzo per trattare i comportamenti criminosi degli adolescenti. Poco più di un segnale. Ma il carcere non è un trattamento. Il suo utilizzo massivo è ostacolato dalla carenza di strutture, ma anche dai suoi effetti iatrogeni ben noti. Il carcere è infatti un luogo dove domina la cultura, egemone tra quelle mura, della sopraffazione, della forza, di una virilità grottesca e cieca. Il personale, per quanto competente, difficilmente riesce ad arginare i danni dell’immersione nell’istituzione totale, che produrrà ulteriori danni, i cui effetti si possono cogliere non appena il carcerato, in questo caso giovanissimo, avrà modo di sperimentare una qualche forma di libertà ritrovata, commettendo nuovi crimini e nuovi danni sociali.

Il sistema della prevenzione e del trattamento del minore autore di reato, per funzionare su un piano diverso dalla demagogia ha bisogno di strumenti efficaci, funzionali e potenti. Ha bisogno di risorse tecniche e culturali prima ancora che economiche: si tratta anzitutto di effettuare una delle più importanti diagnosi, resa obbligatoria dall’art. 9 del dar 448, che riguarda la genesi del crimine nella mente dell’ex bambino che fu, quel particolare agglomerato di idee che rendono l’idea di commettere un’azione criminosa una possibile soluzione a questioni profonde e personalissime.

Per fare questo, anzitutto, servono professionisti specializzati, appassionati, preparati, che esplorino l’universo delle fantasie di recupero maturativo (per citare Novelletto) che illudono i ragazzi di poter aggirare un invalicabile ostacolo evolutivo attraverso un atto di forza, e che ne vengano a capo. Si tratterà poi di indicare le coordinate di una messa alla prova che vada oltre qualche ora trascorsa al canile a dimostrare buona volontà, o un limite all’orario di rientro di un ragazzo di 16 anni troppo abituato all’assenza di limiti. Attualmente, il sistema sanitario nazionale non è in grado di soddisfare da solo questa esigenza di competenza, di conoscenza, di formazione degli operatori, che esiste e va cercata sul territorio con bandi aperti e intelligenti.

E poi, le risorse educative, fondamentali. Servono risorse, strutture e personale dall’immaginazione ampia e fertile. Per sfatare l’idea del buonismo miope dirò subito che chi scrive è favorevole anche alla carcerazione educativa, alla possibilità ancorché per un periodo limitato di limitare la libertà individuale al solo scopo di dimostrare la tenuta del padre simbolico, dell’istituzione. Qualche minore lo chiede - più o meno esplicitamente, qualche volta se ne vede la necessità, ma non sempre i giudici hanno a disposizione gli strumenti per poterlo realizzare. Il minore che commette un reato altamente narcisistico per sfidare il sistema, il soggetto che erotizza la dimensione della propria ricchezza sociale, quello che manipola l’ambiente solo per dimostrare le proprie capacità, non può essere trattato come un delinquente freudiano per senso di colpa, come quell’altro che diffonde un video in cui picchia il compagno disabile o quello che abusa di un familiare. Sono casi diversi, con eziologie del crimine del tutto differenti, la cui risposta deve essere attentamente calibrata; è, per così dire, un lavoro sartoriale, in cui l’abito che propone una reale risoluzione deve essere confezionato su misura, deve trovare un tessuto idoneo e qualcuno che lo tagli esattamente così come deve essere fatto. Il minore autore di reato deve incontrare un contrappasso o una sostituzione nel reale del reato. Non si tratta di dare multe ai genitori, perché i genitori di quel ragazzo che qualche anno fa si presentò alla festa di fine anno scolastico con un fucile nella custodia della chitarra e l’elenco delle persone da uccidere in una tasca non c’entrano con la maturazione di quell’idea nella mente profonda del figlio.

Di quello che facciamo con il penale minorile, della qualità delle risorse che mettiamo in campo ne va, con granitica certezza, della sicurezza sociale, che dipende molto più da questo che dalle punizioni estemporanee. Le risposte di cui ha bisogno la criminalità minorile non sono quelle futili della demagogia, non quella a brevissimo termine garantita da qualche mese di reclusione, non quella degli animi turbati da Caivano che chiedono un risarcimento simbolico. La sicurezza si crea dando risposte alle provocazioni online del giovanissimo stupratore di Palermo che gridando a tutti “io sono la morte”, chiede che la legge per lui sia portatrice non solo di un limite necessario, ma di una vita percorribile da contrapporre alla sua personalissima, reale e dolorosa morte simbolica.

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